Bob Dylan e Kurt Cobain
Autore: Ubba
File Under: Musica
Pubblicato: 09/02/2010 14:21

...ovvero, la storia di due palombari e di un ballo in maschera.

La Parabola

Dylan

Nel 1962 uscì l’omonimo disco d’esordio di Bob Dylan. Bob Dylan non è altro che un tributo ai maestri ed è giustamente considerato un episodio minore nella sua discografia.
Pur essendo, nei fatti, una dichiarazione di intenti, nessuno avrebbe potuto prevedere che il suo autore sarebbe involontariamente diventato il simbolo e il riferimento di un’epoca a partire dal disco successivo: The Freewheelin’ Bob Dylan.

Il mito di Dylan partì da Blowin’ In The Wind e diventò storia al festival Newport del 1965 all’indomani della pubblicazione del capolavoro Bringin’ It All Back Home.

In mezzo a questi due avvenimenti ha luogo la falsa trasfigurazione di un ermetico menestrello folk in icona pacifista, portavoce dei diritti civili e guida del movimento neo-folk del Village.

Ruolo che, sia chiaro, Dylan rifiutò sempre e comunque cercando di mantenere le distanze da qualsiasi etichetta la storia gli volesse affibbiare, ma visto che è difficile fuggire da ciò che gli altri vogliono che tu sia, ecco che il nostro eroe si ribalta con la moto nel Giugno 1966.

Incidente grave dice qualcuno, qualche graffio dicono gli altri, vaffanculo al mondo dice Dylan che non si lascia scappare l’occasione di smettere i vestiti oramai sdruciti del caposcuola.
Insomma, se chiedete a me, vi dirò che Bob Dylan, da abile e furbo comunicatore quale è, decise di essere Bob Dylan solo per quel breve periodo che gli servì per diventare Bob Dylan (da Robert Allen Zimmerman che era).

Da lì in poi da una parte abbiamo il 68, l’emancipazione sessuale, la California dei Jefferson Airplane e dei Grateful Dead, gli hippies, Jim Morrison, Jimi Hendrix e dall’altra abbiamo un Dylan padre di famiglia che occasionalmente fa due puntate a Nashville per registrare prima un disco che oggi verrebbe definito roots (John Wesley Harding del 1968) e poi un disco country (Nashville Skyline del 1969 con Johnny Cash) . Come a dire: “mentre il mondo pensa a scopare e a farsi di acido io me ne sto benissimo a casa con moglie e figli e sì, occasionalmente, registro qualcosa, ma l’importante è che non veniate a rompermi i coglioni”.

Dylan fu un affascinante mistero; fu il cantastorie che per rifiutare un ruolo si mise a scrivere capolavori nonsense (Desolation Row ne è l’esempio lampante) e a urlare ai suoi compagni di scorribande (The Band, Tour 1966) “Play it Fuckin’ Loud” mentre un pubblico indisposto lo apostrofava come “Judas”.

Cobain

Nel 1989 esce Bleach e, così come per Dylan fu Woody Guthrie, i maestri da omaggiare ora sono i Melvins.
Certo, si intravede qualche venatura pop in più e l’andamento è decisamente meno marziale rispetto ai maestri, ma l’atteggiamento è quello e se vi capita di scorrere qualche pagina del diario di Cobain troverete i Melvins una pagina sì e una no. Tra le righe non mancano echi di Pixies, Black Flag, Stooges e chi più ne ha più ne metta.

Bleach, comunque, non vende vagonate di copie.
Insomma, mentre suona il disco Daydream Nation dei Sonic Youth , i Nirvana sono ancora là sotto a pogare con gli altri gruppi della scena e le luci sul palco sono ancora spente perché non è ancora ben chiaro chi ci dovrà salire a calci in culo su quel palco che al centro ha una bella insegna luminosa con su scritto “Vacancy”.

Se non altro, Bleach permette ai Nirvana di farsi conoscere un po’ in giro e sono proprio i Sonic Youth a notarli e a suggerire a David Geffen di metterli sotto contratto.
Nevermind esce il 24 Settembre 1991. La Geffen sperava di venderne 250.000 copie. Sul finire dello stesso anno Nevermind ne vendeva 300.000, ma a settimana! Questo a dimostrazione che il successo dei Nirvana colse di sprovvista anche la loro stessa casa discografica che esaurì la prima stampa in poco più di 5 minuti e 01 secondi, ovvero la durata di Smells Like Teen Spirit. I Nirvana alla fine del 1991 hanno smesso di pogare e ora sono sul palco con l'occhio di bue puntato su Kurt Cobain che distrugge la strumentazione.

Il LA al successo di Nevermind non fu dunque dovuto ad una particolare spinta mediatica o a qualche oscura operazione marketing. C’è anche da dire che erano altri tempi e le masse erano probabilmente (probabilmente, dico) meno rincoglionite di oggi; rimane il fatto che i Nirvana non furono un fenomeno commerciale nel senso più abietto della parola. Una Britney Spears tutta unta che miagola come una gatta in calore su un video pornosoft è un fenomeno commerciale studiato a tavolino, mentre Smells Like Teen Spirit è una canzone che si è scoperta essere un inno, non il contrario. Ci pensa In Bloom, seconda clamorosa traccia di Nevermind, a chiarire il concetto del “sing along”:

He’s the one
Who likes all our pretty songs
And he likes to sing along
And he likes to shoot his gun
But he knows not what it means
Knows not what it means
when I say yeeeaaahhh

Giusto per essere chiari: se i Nirvana fossero stati una bieca operazione commerciale non staremmo qui a parlarne dopo 15 anni e i grandi classici dei Nirvana non avrebbero, molto banalmente, tutti più di 10 milioni di viste su youtube. Ancora: se i Nirvana fossero stati carne da fast food oggi trovereste i loro dischi in svendita a 3 euro di fianco a quelli dei Take That o di Britney Spears…ma così non è, ed è stata la storia a mettere un marchio indelebile su questa band.

L’inatteso successo planetario di Nevermind rende Cobain un riferimento, anche perchè I Nirvana sembrano non volersi piegare all’enstabilishment (si ricordi, agli MTV Awards 1992, il finto attacco della boicottata Rape Me che diventa poi Lithium…e Cobain con una T-Shirt di Daniel Johnston…) e anzi il loro leader pare proprio rifiutare il ruolo da Rockstar che la Geffen gli ha iniziato a cucire addosso per spremere la più classica delle galline dalle uova d’oro. Nonostante tutto quello che seguì a Smells Like Teen Spirit, i Nirvana non furono un successo studiato a tavolino; i Nirvana si trovarono il fiato sul collo dopo che Nevermind esplose quasi per sbaglio.

Il Cobain del post Nevermind è un ragazzo biondo pelle e ossa che soffre lancinanti dolori di stomaco e che, suo malgrado, si trova nell’occhio del ciclone. Ci sarà giusto il tempo per incidere In Utero (registrato e mixato in 2 settimane, costo 25.000$) e un concerto unplugged per MTV perché il suo personale incidente in moto è lì ad aspettarlo con tanta eroina e un colpo di fucile.

Ora, l’inaspettato BOOM di Nevermind è la chiave per capire l’importanza dei Nirvana. Certo, prima c’erano stati i Pixies, i Dinosaur Jr., i Melvins, i Sonic Youth e qualche altro centinaio di band underground, ma nessuna aveva fatto un tale botto (a parte i Pearl Jam, che però suonano molto diversi dai Nirvana). Nessuna delle sopracitate (e valorosissime) band era riuscita a comunicare ad un pubblico così vasto che andava dal fan dei Black Flag, all’appassionato di musica per finire con gli ascoltatori occasionali e con quelli a cui la musica, solitamente, non interessava per niente.

Pochi dischi sono stati “trasversali” come Nevermind ed è proprio questa trasversalità la chiave di lettura dell’opera di Cobain.

 

It’s better to burn out…

Non deve sorprendere che il Dylan soggetto di studi esegetici sia principalmente quello 1962-1966. Poi ci furono Blood On The Tracks, Desire e la Rolling Thunder Revue e, se vogliamo, anche un ritorno agli ideali di un tempo con il sostegno alla causa di Rubin “Hurricane” Carter, ma fu nulla al confronto del fermento culturale di cui il nostro fu protagonista e poi vittima agli esordi.

Sotto questo punto di vista l’analogia tra l’incidente in moto di Dylan (1966) e il suicidio di Cobain (1994) è fortissima.
L’unica differenza è che Dylan è sopravvissuto a sé stesso, Cobain no.

 

I’ll Be Your Mirror, reflect What You Are

Dylan e Cobain hanno in comune più di quanto non si pensi. Entrambi non hanno fatto altro che scrivere canzoni ed entrambi si sono trovati imprigionati in un ruolo: due palombari, in pratica.

Due epoche diverse li dipinsero portavoce di messaggi diversi.

Ma perché Dylan? Perché non Phil Ochs, perché non Tim Hardin, perché non Donovan, perché non…

Ma perché i Nirvana? Perché non i Dinosaur Jr., perché non i Melvins, perché non i Pixies, perché non…

Non penso sia dato di sapere la risposta, non almeno in questa vita.
Misteriose sono le vie del Signore direbbe qualcuno, questione di culo direbbe qualcun altro.
Certo è che sia Dylan che Cobain si sono meritati lo status raggiunto a suon di capolavori (e una In Bloom vale quanto una Like a Rolling Stone per quanto mi riguarda).

 

Dylan’s Legacy

L’importanza di Dylan a livello socio-culturale non è neanche lontanamente confrontabile a quella, ad esempio, dei Beatles.
Dylan è IL riferimento per ogni songwriter che si voglia definire tale, Dylan è il sommo poeta che non manca in nessuna discoteca che si rispetti, ma Dylan è anche e SOLO, per la maggioranza delle persone, un nome cui non si può dare addosso perché “si dice” che sia/sia stato un grande.
Parliamoci chiaro: Dylan vende ancora bene, ma, nonostante ciò, negli ultimi 40 anni avrà venduto 1 cinquantesimo di quello che hanno venduto i Beatles.

Certo, Dylan è un mito intoccabile, ma provate OGGI (non negli anni sessanta) a scendere in strada e a chiedere al primo che passa di elencarvi 5 pezzi di Bob Dylan: la cosa più probabile che vi può capitare è che come risposta otteniate un “dunque…mumble mumble…Blowin In The Wind e…Like A Rolling StoneS…no aspetta, questa qua è dei Rolling Stones…boh!” e questo è tutto. Come a dire che Bob Dylan per le masse è solo un nome e niente più.

E’ addirittura meno di quello che è De Andrè in Italia (perché Faber vende ancora bene nell'asfittico panorama nostrano): intoccabile, ma poi andate a chiedere a qualcuno su che disco sta Ottocento e godetevi la faccia che farà (a proposito, c’avete rotto il cazzo con le ristampe dei dischi di De Andrè…che poi è colpa di chi le compra, queste cazzo di ristampe).

Dylan insomma è la classica eminenza grigia ammantata di mistero e in questo senso risponde perfettamente al principio di indeterminazione di Eisenberg: se provi ad avvicinarti più del dovuto lui si sposta e ti lascia con un pugno di mosche.
Dylan è la Numero 1 di Zio Paperone dentro alla teca: mitica perché inarrivabile, ma proprio perché è inarrivabile nessuno sa bene come è fatta.
Dylan ha influenzato tutto e tutti, ma non per questo ha lasciato un'impronta sui costumi di un’epoca.

La questione dell’eredità di Bob Dylan è stata tirata in ballo decine di volte nel corso degli anni; in pratica ogni volta che sulla scena si affaccia un songwriter chitarra/armonica. Difficile immaginare qualcosa di più sbagliato, sarebbe come dire che l’erede di Leonardo Da Vinci è il tale che per primo ha fatto volare un modello di aereoplanino telecomandato.
Il valore e il significato delle nostre azioni non sono assoluti, ma relativi al contesto in cui esse si inseriscono.  

Per cui al rogo chitarra e armonica, discutere di un possibile erede di Dylan ha senso se e solo se ne viene contestualizzata l’opera. E’ in quest’ottica che le canzoni, i dischi e l’evoluzione dei Nirvana rispecchiano quasi miracolosamente la parabola Dylaniana.

Bleach è Bob Dylan, Nevermind è Freewheelin’ Bob Dylan, Smells Like Teen Spirit è Blowin in the Wind e, a voler essere di manica larga, In Utero è Bringin It All Back Home nella misura in cui Milk It (e in generale il suono grezzo e violento di In Utero) può avere il sapore del tradimento elettrico di Dylaniana memoria.
Entrambi sono emersi senza una particolare spinta mediatica (agli esordi) ed entrambi si sono distinti perché hanno saputo, volenti o nolenti, farsi interpreti dei propri tempi.

Non ultimo, sia l’intellettuale ed ermetico Dylan che il viscerale Cobain hanno scritto canzoni formidabili; il che non guasta mai quando si parla di musica.

 

Nirvana’s Legacy

Alla luce di quanto detto mi è impossibile trovare un autore che, più di Kurt Cobain, si avvicini alla figura di “erede di Bob Dylan”.

Se diamo retta a Tom Petty l’unico gruppo che ha prodotto qualcosa di veramente significativo dopo i Beatles sono i Nirvana, se invece dovessimo dare credito a Neil Young, Cobain è colui che dorme con gli angeli (Sleeps With Angels). E questo sempre senza dimenticare che una delle canzoni più struggenti dei R.E.M. (Let Me In da Monster) è stata scritta per Cobain (che di Michael Stipe era amico).

Insomma, se non dovessero bastarvi i dati relativi alla vendita delle camicie di flanella e dei dischi dei Nirvana (che a tutt’oggi, dopo 15 anni, sono uno dei pochi gruppi che ancora vende dischi con Beatles e Pink Floyd), fidatevi almeno dell’opinione di qualche mostro sacro

I Nirvana hanno segnato gli anni novanta come poche altre band; forse solo i Pearl Jam possono entrare in questa ipotetica competizione. I Guns N’ Roses hanno venduto qualche tonnellata di dischi, ma sono stati e sempre saranno degli amabili cazzoni. I Radiohead hanno innescato una rivoluzione e rimangono una delle band più grandi di sempre, ma Ok Computer è uscito nel 1997 a giochi fatti; se me li devo giocare, me li gioco come la band più importante degli ultimi 10 anni (insieme ai White Stripes), ma non me li spendo di sicuro come carta jolly per gli anni 90.

No, gli anni novanta sono gli anni dei Nirvana e Cobain è il simbolo di quegli anni, se di simboli ha senso parlare. A voler essere precisi Cobain sta alla prima metà degli anni novanta come Dylan sta alla prima metà degli anni 60.


This is the end, my only friend, the end

Bob Dylan e Kurt Cobain.
Al termine delle rispettive parabole si sprecheranno fiumi di parole per entrambi.

Un’aura di mistero se li porterà via e il solo dei due che tornerà lo farà con la faccia impiastricciata di bianco.

Come se, per farsi perdonare il fatto di essere stato Bigger Than Life (e per evitare di doversi per questo motivo cambiare l’anima), Dylan sentisse l'obbligo di nascondersi dietro ad una maschera.

Cobain, purtroppo, come maschera scelse l’eroina. E fu una maschera che non riuscì più a togliersi.

 

 

 

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